Differenze in termini di deriva, efficacia e efficienza nel trattamento con le macchine irroratrici.
Michela Lugli

Prima di entrare nel vivo del discorso, è necessario chiedersi quale sia l’obiettivo del nostro trattamento.

L’efficacia, l’efficienza, la tutela ambientale e l’economicità sono i parametri ai quali dobbiamo fare riferimento quando andiamo ad analizzare gli aspetti tecnici che portano alla scelta di una macchina piuttosto di un’altra o alla definizione dei suoi parametri operativi.

Ciò è funzionale a comprendere che l’uniformità del trattamento è la chiave che ne determina l’efficacia.

In tal senso, immaginiamoci che al pari di una verniciatura, la distribuzione del prodotto sanitario in questione debba essere il più omogenea possibile; ma, parimenti, consideriamo che a differenza della verniciatura solitamente distribuita su una superficie, qui ci troviamo a operare su un volume che va ‘penetrato’ uniformemente in tutti i suoi punti.

“In presenza di volumi consistenti, le maggiori difficoltà le incontreremo con atomizzatori a spalla dotati di motore ma privi di ventilatore, la cui capacità di veicolare il prodotto nel ‘volume’ vegetativo è ridotta – ha spiegato Davide Facchinetti ricercatore presso il Dipartimento di scienze agrarie e ambientali dell’Università di Milano, esperto in ingegneria agraria, ambientale e dei sistemi.

Anche lance collegate a motocarriole, motopompe o atomizzatori collegati al trattore da un grosso tubo, non si prestano particolarmente al trattamento di volumi vegetativi spessi, a meno di ricorrere a pressioni molto elevate, dell’ordine di svariate decine se non centinaia di bar, perché generano un deposito per lo più superficiale del prodotto.

Qualora, disponendo dell’attrezzatura di cui sopra, si decidesse di ricorrere a forti pressioni, dovremo considerare che la popolazione di goccioline generata sarà di dimensioni tali da causare importanti perdite per evaporazione diretta, a fronte di una penetrazione non ottimale come quella che si potrebbe avere disponendo di una corrente d’aria”.

Oltre al volume vegetativo, andrà considerato anche il tipo di trattamento. Farà differenza l’impiego di un fitofarmaco di copertura o uno ad azione sistemica che non genera grossi problemi di uniformità e, per garantire una buon risultato in termini economici e di efficacia, richiede la massimizzazione del deposito sulla foglia rispetto alle perdite.

In questo caso, specie lavorando su pareti vegetali non particolarmente profonde, come ben chiarito da Facchinetti, la corrente d’aria può addirittura risultare controproducente. Infatti, si può assistere ad una penetrazione del prodotto che supera la massa vegetale e, senza andare a bersaglio, si disperde.

“Dovendo trattare un vigneto a guyot all’inizio della fase vegetativa – spiega il ricercatore -, quando sono presenti un numero ridotto di foglie, è più facile massimizzare il deposito fogliare con semplici barrette verticali prive di corrente d’aria, che non ricorrendo all’atomizzatore classico la cui corrente risulta eccessiva anche riducendo al minimo la quantità d’aria”.

Il discorso cambia quando impieghiamo un prodotto di copertura quali preparati rameici o a base di zolfo, come sovente accade nei trattamenti contemplati dal disciplinare biologico ma anche in frutticoltura e in viticoltura dove, anche per una questione di costi, buona parte dei trattamenti sono con fitofarmaci attivi per contatto.

In questo caso, diventa fondamentale disporre di una corrente d’aria capace di penetrare lo strato vegetativo; corrente che dovrà essere tanto più potente quanto maggiore è lo spessore da trattare.

“Il vantaggio di un atomizzatore spalleggiato a corrente d’aria, con polverizzazione meccanica e ugello, è quello di poter regolare la velocità d’aria diminuendola anche molto, cosa non possibile con la polverizzazione pneumatica.

Sarà utile, viceversa, disporre di una macchina a funzionamento pneumatico ad esempio nei trattamenti su melo in vaso o sulla botrite così da penetrare, con fungicidi da contatto, profondamente nel grappolo”.

Ad ognuno il suo ugello

Anche in questo caso, la scelta ottimale della tipologia d’ugello deriva dall’attenta valutazione di una serie di parametri.

“Nei trattamenti sistemici – spiega Facchinetti -, sempre tenendo fermo l’obiettivo della massimizzazione della percentuale di deposito fogliare, è meglio scegliere ugelli di calibro maggiore così da lavorare con una popolazione di gocce più grande e meno soggetta a deriva o evaporazione.

Se parliamo di trattamenti di copertura, allora dovremo scegliere ugelli più fini per ottenere gocce con diametro compreso tra 100 e 300 micron”.

In base alle informazioni fornite dal ricercatore, possiamo dire che utilizzando un ugello tradizionale associato alla polverizzazione meccanica e tecniche classiche in quanto a valori di pressione, disporremo di una popolazione di goccioline abbastanza uniforme con dimensioni medie oscillanti tra 100 e 300 micron; mentre, con macchine a polverizzazione pneumatica, la popolazione di goccioline avrà dimensione media compresa tra 80 a 200 micron – al di sotto di questo valore la gocciolina non si forma bene e la macchina non funziona più in modo ottimale – inversamente proporzionale alla velocità dell’aria il cui range di regolazione è però piuttosto ristretto.

“Per numerose tipologie di parete – spiega il ricercatore – con macchine a funzionamento pneumatico, anche il valore minimo della velocità dell’aria è già eccessivo.

Si tratta di macchine molto soggette a deriva e non a caso, in diversi stati nord europei sono inutilizzabili per le fasce di rispetto pari a diverse decine di metri imposte dalla normativa”.

In commercio da qualche anno, gli ugelli a induzione d’aria, generano goccioline che sono in realtà bolle d’aria che, una volta a contatto con la vegetazione, dovrebbero esplodere formando goccioline più piccole, meno soggette a deriva e capaci di migliore copertura.

“Ciò – chiarisce Facchinetti -, è vero solo in parte. Lo stesso effetto di diminuzione della deriva, infatti, si ottiene anche utilizzando un ugello più grande con una pressione più bassa capace di generare lo stesso volume con gocce più grosse.

In linea di massima, possiamo affermare che sull’atomizzatore, sia esso portato o attaccato al trattore e sulla lancia, l’ugello più utilizzato è quello a cono vuoto in grado di dar vita a una popolazione di goccioline più uniforme dal punto di vista dimensionale.

In alcuni casi molto rari – specifica -, e mi riferisco a macchine non aeroassistite, c’è la possibilità di scegliere il classico ugello a ventaglio da irroratrice dal quale si ottiene però una popolazione di goccioline molto disomogenea e difficile da veicolare verso un bersaglio”.

Questa ultima scelta diventa funzionale con la barra irroratrice che avendo un angolo di apertura molto ampio, 110 gradi con ugelli distanziati 50 centimetri circa tra di loro, quando passa in trattamenti orizzontali a una distanza di 50-60 centimetri sopra la vegetazione, genera un diagramma di distribuzione praticamente perfetto.

“Cambia tutto se parliamo di trattamenti verticali – chiarisce Facchinetti -, in questo caso, le goccioline all’interno dell’angolo di apertura, più grosse e pesanti, cadono prima mentre quelle laterali sono molto più soggette a deriva”.

Ampia anche la scelta dei materiali per gli ugelli.

Un tempo molto diffuso, l’alluminio soggetto a rapida usura, ha lasciato il posto alla plastica, molto più economica ma adatta a macchine di ‘bassa fascia’ che operano a pressioni inferiori ai 10 bar. L’ottone rappresenta una scelta economica ma di bassa durata; tra le opzioni anche l’acciaio e, in fine, la ceramica che si distingue per la maggiore resistenza nel tempo.

“Acciaio e ceramica – specifica il ricercatore milanese -, a parità di pressione di esercizio e di forma del foro, generano la stessa popolazione di goccioline; la ceramica – conclude -, ha il vantaggio di durare il doppio con una spesa assolutamente sovrapponibile se non, a volte per alcune tipologie di ugello, inferiore”.

Michela Lugli

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